lunedì 28 marzo 2011

Joseph Roth

Da “La Cripta dei Cappuccini”

Dunque, anche quella sera andai al caffè Lindhammer e mi comportai come se non fossi affatto eccitato come gli altri. Non mi consideravo forse da tempo ormai, da quando ero tornato dalla guerra, uno che era vivo per errore? Non mi ero forse abituato ormai da lungo tempo a osservare tutti gli avvenimenti che i giornali definiscono “storici” con lo sguardo spassionato di uno che non appartiene più a questo mondo? Era già un bel pezzo che la morte mi aveva mandato in congedo a tempo indeterminato! Ed essa, la morte, a ogni istante poteva interrompere il mio congedo. Come potevano riguardarmi ancora le cose di questo mondo?...
Tuttavia mi preoccupavano e specialmente quel venerdì. Fu come se si trattasse di decidere se io, un pensionato dalla vita, potevo continuare a consumare in pace la mia pensione, come fino ad allora, in una pace amara; o se anche questa mi doveva essere tolta, questa povera pace amara: la rinuncia si potrebbe dire, che io ero avvezzo a chiamare “pace”. Così che, spesso negli ultimi anni quando l’uno o l’altro dei miei amici veniva da me per dirmi che era finalmente arrivato il momento che io mi occupassi della storia del nostro paese, dicevo, certo, la solita frase: «Lasciatemi in pace!», ma sapevo benissimo che in realtà avrei voluto dire: «Lasciatemi alla mia rinuncia!». La mia cara rinuncia! Anche quella adesso è perduta! Ha preso la via dei miei desideri rimasti inappagati…
Andai dunque a sedermi al caffè e mentre gli amici al mio tavolo continuavano a parlare delle loro faccende private, io, che per un destino non meno inesorabile che clemente vedevo esclusa ogni possibilità di un mio interesse privato, sentivo ormai solo quello generale, che in vita mia mi era importato così poco, che in vita mia ero stato solito sfuggire…
Erano settimane ormai che non leggevo più un giornale e i discorsi dei miei amici che sembravano vivere dei giornali, addirittura essere tenuti in vita da notizie e dicerie, erano al mio orecchio un mormorio fuggevole che lasciava il tempo che trovava, come le onde del Danubio se qualche volta restavo seduto sul lungofiume Franz-Joseph o sulla Elisabeth-Promenade. Io ero escluso; escluso ero. Escluso in mezzo ai vivi significa qualcosa come: extraterritoriale. Ero appunto un extraterritoriale in mezzo ai vivi.
E anche l’eccitazione dei miei amici, quello stesso venerdì sera, mi sembrò di troppo; fino al momento in cui la porta del caffè fu spalancata e sulla soglia apparve un giovane stranamente abbigliato. Portava gambali neri di cuoio, una camicia bianca e un tipo di berretto militare che mi faceva pensare insieme a un vaso da notte e a una caricatura dei nostri vecchi berretti austriaci; insomma: non era neanche un copricapo prussiano (perché i prussiani non portano in testa né cappelli né berretti, bensì copricapi). Io, lontano dal mondo e dall’inferno che per me rappresentava, non ero affatto idoneo a distinguere i nuovi berretti e le nuove uniformi, tanto meno a riconoscerli. Ci potevano essere camicie bianche, azzurre, verdi e rosse; calzoni neri, marroni, verdi, azzurro-lacca; stivali e speroni, foderi e cinghie e cinture e pugnali e guaine di ogni tipo: io, a ogni buon conto, io avevo deciso per quanto mi riguardava, da tempo ormai, fin da quando ero tornato dalla guerra, di non distinguerli e di non riconoscerli. Perciò sulle prime fui più sorpreso dei miei amici per l’apparizione di questa figura, che era come salita dalla toeletta giù nello scantinato e che invece era entrata dalla porta di strada. Per qualche secondo avevo realmente creduto che la toeletta dello scantinato, a me pur ben nota, a un tratto si trovasse fuori e che uno degli inservienti fosse entrato per annunciarci che tutti i posti erano già occupati. Ma l’uomo disse: «Compatrioti! Il governo è caduto. Abbiamo un nuovo governo popolare tedesco!».
Da quando ero rimpatriato dalla guerra mondiale, rimpatriato in un paese pieno di rughe, mai avevo avuto fiducia in un governo: figuriamoci poi, in un governo popolare. Io appartengo ancora oggi – nell’imminenza della mia probabile ultima ora, io, un uomo, posso dire la verità – a un mondo palesemente tramontato, nel quale pareva naturale che un popolo venisse governato e che dunque, se non voleva cessare di essere popolo, non poteva governarsi da solo. Ai miei orecchi sordi – spesso avevo sentito che li chiamavano “reazionari” – suonò come se una donna amata mi avesse detto che non aveva affatto bisogno di me, che poteva fare l’amore con sé sola, e che anzi doveva farlo, e invero al solo scopo di avere un bambino.